Giuseppe La Mura: “I bulgari mi dissero: “Facciamo 80 km al giorno”. Allora è nato il mio metodo”

Giuseppe La Mura, ex direttore tecnico azzurro.

“Una volta un osteopata chiese a un mio atleta: “Ma chi è sto La Mura?” E lui rispose: “U vangelo!”. Quando il “dottore” ci racconta questo aneddoto, scoppia in una sonora risata. Del resto, Giuseppe La Mura sa bene che per il canottaggio lui non è solo l’ex direttore tecnico: è il “padre” degli Abbagnale, l’allenatore che ha trasformato l’Italia in una potenza mondiale, l’uomo che ha fatto di questo sport una scienza. Amato e contrastato, venerato e discusso per il suo metodo – da qualcuno giudicato estenuante – l’ex numero uno azzurro, oggi consulente della Federcanottaggio, si gode la pensione da medico della mutua a Pompei, tra gli alberi del suo giardino. E il canottaggio se lo sogna pure la notte.

Dottore, non riesce proprio a staccare lei…
“Beh, pensare al canottaggio mi viene spontaneo: fa parte della mia vita dal 1960, quando ho cominciato a remare. Sono sessant’anni di attività, tranne una piccola parentesi in cui ho smesso per laurearmi. E poi per telefono sento tante persone. Mi capita di sognare che devo risolvere problemi, ma mai che festeggio”.

Le manca il canottaggio sul campo?
“Mi manca il rapporto con la squadra di Castellammare, perché in nazionale la relazione con gli atleti è filtrata con gli allenatori societari, non si crea un legame stretto e il gruppo lavora in maniera diversa. In società c’è un rapporto confidenziale, mentre in nazionale o c’è stima o c’è contrasto. Insomma, non è una famiglia”.

Non lavora più con la squadra, però il direttore tecnico attuale, Franco Cattaneo, è uno dei suoi eredi.
“Abbiamo lavorato insieme per tanti anni, è stato il mio vice dal 2013 al 2016, ma di fatto gli facevo fare tutto. È uno che ha fatto suo il mio metodo”.

Da sinistra, Giuseppe Abbagnale, Carmine Abbagnale e Peppinello Di Capua.

Qualche tempo fa, in un’intervista, lei ha detto che “la fatica, lo sforzo, sono lo slancio necessario per raggiungere un obiettivo. Ogni atleta dovrebbe essere innamorato della fatica, come un filosofo è innamorato della conoscenza”. Come si fa ad amare la fatica?
“Uno sport di resistenza è connotato dalla fatica, dalla resistenza alla fatica, quindi conta molto. Senza le qualità di resistenza alla fatica non si può fare canottaggio nemmeno amatoriale. Comunque la fatica è sempre rapportata al tuo stato di condizionamento fisico. Un amatore farà poco ma ha un basso condizionamento, dunque fa fatica a fare quel poco così come il campione a fare tanto”.

Quale dev’essere la prima qualità di un canottiere?
“Saper resistere, saper spostare sempre più in là soglia del dolore”.

La fatica è importante, ma è sufficiente per diventare un campione? Forse gli Abbagnale, Sartori, Galtarossa, Mornati erano dei talenti.
“Sicuramente gli Abbagnale non erano né Alessio Sartori né Rossano Galtarossa: erano come Raineri, dei buoni atleti che si sono confrontati con i Sartori e Galtarossa di tutto il mondo. L’allenamento che hanno fatto è stato fondamentale per creare una personalità diversa. Solo creando una forma mentis particolare la fatica diventa l’obiettivo dell’allenamento. Non il nemico. Detto questo, sicuramente solo con la fatica non si arriva a certi livelli: servono qualità fisiologiche di base, e serve anche la tecnica, che è fondamentale: uno stile molto economico e la psicologia formata durante gli allenamenti sono il modo per creare una grande convinzione psicologica e per essere efficaci di fronte alle difficoltà”.

Lei ha visto allenarsi tantissimi atleti in nazionale. C’era differenza nel modo in cui si allenavano gli Abbagnale rispetto agli altri?
“Se tutti gli atleti di un certo livello si fossero allenati come gli Abbagnale si allenavano a Castellammare sarebbero stati più forti. E vale il contrario: se gli Abbagnale si fossero allenati come loro, nonostante il mio programma e mia tecnica, non avrebbero ottenuto quei risultati”.

Da sinistra, Davide Tizzano e Agostino Abbagnale.

Quindi non è solo questione di programma: c’entra l’approccio psicologico.
“Ripeto, non ho mai visto gli altri allenarsi come loro. Giuseppe era la cartina di tornasole di come ci si allena. Se lui faceva la corsa lunga con Ciccio Esposito, che era peso leggero, Peppe cercava di non lasciarlo andare via. E alla fine era talmente sfinito che non riusciva a salire nemmeno le scale. Ecco, non ho mai visto un atleta della nazionale finire la corsa in quelle condizioni. E nemmeno piangere sotto i pesi”.

Il suo metodo non piaceva a tutti…
“Quando vinsi il mondiale per la prima volta, feci una relazione spiegando che cosa avessi fatto e la mandai a Thor Nielsen, il direttore tecnico dell’epoca, che non mi rispose. Quando lo incontrai, gli chiesi che cosa ne pensasse del mio programma che era più intenso di quello della Ddr (Germania dell’Est, ndr) e di quello sovietico. Mi rispose: “Io non vorrei essere un tuo atleta”. Il fatto è che il mio modo di allenare veniva rifiutato. Si pensava che la differenza la dovessero fare l’atleta, la mentalità, non l’allenamento”.

La Mura, per lei che cosa è lo sport?
“Per me lo sport è una sfida ad andare in alto, più forte, più veloce. Penso a chi fa l’ultramaratona, l’ironman: ecco, nell’uomo c’è questo desiderio di sfidare se stesso e la natura per rafforzare il proprio spirito. Per me lo sport è questo, per altri è divertimento. Qualcuno dice: “Se non mi diverto più, smetto”. Io, invece, dico: se ti devi divertire puoi fare altro. I miei ragazzi facevano allenamento con efficienza ed efficacia. Chi si voleva divertire giocava a pallone”.

Prima di cominciare a vincere con i suoi atleti, ne ha subite di sconfitte. Come ha fatto a cambiare marcia? Com’è nato il metodo La Mura?
“Alle Olimpiadi di Mosca, nel 1980, non entrammo in finale. Avendo tempo, andavo sul campo a osservare gli avversari. A un certo punto parlai con l’allenatore bulgaro e mi disse che loro facevano 80 km al giorno e mi spiegò che per i suoi atleti il canottaggio era l’alternativa al lavoro: anziché andare in fabbrica, si allenavano per otto ore al giorno. Alla Ddr facevano 60 Km, ma più intensi. Poi capitò un’altra cosa che mi fece pensare che non facevamo abbastanza: durante quel mondiale, gli Abbagnale stavano facendo l’allenamento quotidiano e affiancarono la Ddr sul fondo da 12 km a 22 colpi: andavamo alla stessa velocità, così pensai: “Siamo forti”. Poi, arrivati ai 10 mila, i miei cominciarono a mollare mentre loro continuarono con la stessa intensità. Capii che eravamo meno preparati fisiologicamente: gli avversari avevano forza e resistenza, erano un altro mondo. Per fare il salto di qualità dovevamo lavorare sull’intensità: i miei ragazzi non potevano fare 80 km al giorno perché studiavano, quindi in meno tempo, in 20-30 km, dovevano sottoporsi a un allenamento più efficace. Ed è così che ho iniziato a mettere in relazione velocità della barca e dispendio energetico”.

Lei ha visto e allenato generazioni di atleti: com’è cambiato l’approccio alla fatica da parte degli atleti? Secondo lei oggi i ragazzi la accettano meno?
“Geneticamente l’uomo è nato per economizzare le energie: se una persona deve passare da un prato, fa la diagonale non i confini. La differenza col passato è che oggi, magari, gli atleti lo dicono con più sfacciataggine se non vogliono fare qualcosa. Una volta Giuseppe vide un doppio vincere senza allenarsi nello stesso modo suo e mi disse che lui aveva fatto inutilmente tutta quella fatica. Io gli dissi: “Tu non sei Sartori, Galtarossa, Dei Rossi. Tu hai bisogno di lavorare di più”.

Il rapporto allenatore-atleta è democratico?
“Io dico che deve essere democratico! Anche se detto da me sembra una bestemmia. Io spiego l’allenamento, non dico lo devi fare e basta. Tutti gli atleti hanno avuto la possibilità di parlarmi, ma il 99 per cento delle volte, ascoltavo e dicevo: “Ho capito ma hai torto in base alle evidenze scientifiche e alla mia esperienza”. Io sono democratico, ti do tutte le spiegazioni ma se tu non mi convinci facciamo come dico io. Io ho la responsabilità di condurre il tuo allenamento e l’atleta ha il dovere di essere guidato. Quando non posso fare come dico io, secondo la mia scienza e coscienza, me ne vado democraticamente”.

Lo stesso programma può valere per tutti?
“Ciascuno fa un programma in base all’obiettivo che può o deve raggiungere. Non puoi far fare gli allenamenti degli Abbagnale a chi non può fare risultati”.

Se ripensa al suo passato da allenatore, c’è qualcosa che avrebbe fatto diversamente?
“Nel 2004, avevo due quattro senza forti. Quello che andò alle Olimpiadi e un altro su cui c’erano, forti, Palmisano e Carboncini. Avrei dovuto metterli sull’otto per le Olimpiadi, erano necessari, ma non lo feci perché avrei dovuto sostituire due atleti titolari. Fu un errore”.

3 Commenti

  1. La fortuna di appartenere a quella generazione…Andare sui campi di gara internazionali e vedere vincere, rivincere e anche stravincere gli atleti in maglia azzurra..e poter dire di tutti loro e degli allenatori: SONO I MIEI AMICI!Una volta l’allenatore dell’otto Tedesco mi disse che il nostro sistema non era buono. Fece l’esempio della chiave che stringendo troppo può rompere il bullone. Mi misi a ridere e risposi: Herr Oltmeier(più o meno il cognome è questo) ma lei ha visto i nostri BULLONI? Un caro saluto a tutti.

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